6. LIBERO ARBITRIO

Sulla tragedia di Sofocle che si intitola al nome dell’eroina protagonista, l’Antigone, si sono versati fiumi di inchiostro. Interpretazioni e commenti si sono susseguiti nel tempo, a cominciare da Aristotele, che vi impernia la sua teoria della cosiddetta catarsi. Ma il massimo di interesse critico si è verificato nell’epoca in cui si passò dal neoclassicismo al romanticismo, dal valore della ragione al valore del sentimento. Memorabili sono state le prese di posizione di Hegel, di Goethe e di Kirkegaard sul significato della tragedia tradotta appassionatamente in tedesco da Hölderlin. Si inaugurava, soprattutto con i primi due, una prospettiva in cui la politica assorbiva in sé anche l’etica, come è tipico anche della modernità in cui viviamo.

Forse per reagire ad una sorta di burocratizzazione del campo in cui siamo chiamati ad esercitare le nostre scelte etiche, alcuni pensatori sono tornati ad occuparsi dell’Antigone in chiave più esistenziale/soggettiva. Lacan affronta il testo di Sofocle con una straordinaria attenzione filologica nel VII Seminario. E’ il seminario che, ancora dopo quasi vent’anni, disse di amare di più, non senza, per paradosso, il desiderio di riscriverlo di suo pugno.

 E’ difficile, per chi ha seguito l’insegnamento di Lacan in tutto il suo sviluppo, sottrarsi all’impressione che le orazioni della “mirabile fanciulla”, possano servire da esempio per uno dei famosi “4 Discorsi” (forme, non contenuti di significazione, che reperirà per dar conto dei legami sociali esattamente dieci anni dopo), nella fattispecie per il “Discorso dell’Isterica”.

Non c’è ovviamente né riferimento alla nosologia freudiana delle nevrosi né attribuzione di genere: si tratta di quel Soggetto del tutto trasversale che reclama la verità “ad ogni costo”. Ma, vedremo, resterebbe comunque un’impressione troppo approssimativa.

C’è una certa saggezza nell’isteria, quella di attuare il sintomo, il grido più o meno tacito “non è vero!” nella contingenza, esulando dalla inane pretesa dell’ossessivo che non vuole tanto la verità della situazione quanto che esista “una verità” ulteriore onnicomprensiva per calamitare il desiderio.

L’isteria rappresenta più l’opposto che il rovescio (come può esserlo il discorso della psicanalisi) del “Discorso del Padrone”, in questo caso del discorso di Creonte, il padrone della città al quale la verità non interessa, non gli fa problema, pure rappresentandola nella veste della necessità, come dire nella veste della legge. Nella tragedia la verità come supposizione di valore in sé si perde nelle inevitabili sfaccettature contingenti, tante che sul versante del Coro i tentativi dei vecchioni di starvi dietro invocando intricate metafore mitologiche, scivolano da stasimo in stasimo verso una comicità aristofanea di saggi paludati.

Le diverse verità esistenziali sono rappresentate, ma la cosa non pare interessare il coro, dai personaggi di contorno: Ismene, la verità della castrazione, il messaggero, la verità del calcolo, Emone, la verità della passione, Tiresia, la verità del Fato.

Cosa rappresenta Antigone con la sua pretesa che può sembrare futile o pretestuosa in un clima di necessaria pacificazione, essendo passato a Tebe il turbine di una guerra praticamente civile?

E’ vero, le esequie umane sono il punto universale, fondante, che differenziano tutti gli umani dai bruti, dalle fiere. E’ vero, sono cose che pertengono a leggi non scritte dagli uomini, diritto naturale, opponibile al diritto positivo, si potrebbe dire; ma non si tratta di una dialettica accessibile alla politica? Di quale sapere si ammanta Antigone nella sua ostinazione? Di nessun sapere, lo dice lei stessa. Semmai, la significazione ctonia della sepoltura, che lei produce in favore di un mondo sotterraneo in cui i morti valgono quanto i vivi, né più né meno, tiene la morte fuori senso come un resto, uno scarto del polemos che dalla sua bocca investe il logos e il nomos. C’è in lei un impeto avulso dalle complicazioni religiose e mitologiche, che restano trastullo dei corifei, tanto avulso da risuonare nei secoli come puro atto etico ovvero come puro desiderio fondante un “sapere altro” alieno da ogni saggezza. Risuona qui anche il famoso esergo freudiano: ”Ad acheronta movebo”.

La giustificazione di Antigone per il suo estremismo antagonista spinto alla perdita di sé stessa, è la più inappellabile, il Simbolico parentale che ci accoglie nel Senso, se ci accoglie, per esservi stati gettati. Non ha scelto di essere sorella di Polinice, lo è e basta. E’ la giustificazione che suona debole a Goethe, tanto da farlo sospettare che sia stata interpolata nel corso delle trascrizioni. No, dice Lacan, è proprio questa la chiave per riscattare il desiderio di Antigone sollevandolo dall’antagonismo isterico (e rivoluzionario) di una rompiscatole che idealizzi il suo immaginario.

Certo, oppone il pensiero senza tempo degli Dei al pensiero di Creonte, ma cosa pensino gli Dei lo si può indovinare solo a posteriori.

Questo Antigone lo sa, sa che il suo gesto è fuori ogni contesto di senso e di diritto, di logos e di nomos, perciò radicalmente autonomos, nella sua lingua, ma non vuole passare per pazza, dato che non lo è: non ha dismesso l’Altro, concede una spiegazione al Coro, affida alla città il pathos del sacrificio, ma impone da padrona il suo editto assoluto apponendovi il sigillo della morte. “Mus es sein? Es mus sein!”. E’ così perché lo dico, e lo dico perché sono stata detta sorella. Significa qualcosa? Tutto e niente. Chi scrive le “leggi non scritte”? Nessuno: nel Soggetto la cosa pulsionale c’è al di là della necessità naturale, non scrive, parla! Antigone è innaturale ma non per questo civilizzatrice.

Si è accostata, per esempio anche da Gustavo Zagrebelskj e da Claudio Magris, la dialettica tra Creonte, leader burocratico, ed Antigone, a quella tra l’Inquisitore di Dostoevskji e Cristo: non funziona, per la semplice ragione che la fanciulla tebana non porta al mondo alcuna buona novella e non pretende di sovvertirlo, le basta che la sepoltura avvenga come significante della morte, abbia o non abbia ciò un senso, indipendentemente dalla colpa de-scritta di Polinice. Non è neanche l’Antigone di Brecht, antagonista a ragion veduta. Nella logica pratica e potente dei martiri di ogni tempo, il suo stesso atto si fa significante, “Vorstellungräpresentanz”, direbbe Freud, rappresentante della rappresentazione sepolcrale come quell’evento in cui un senso può manifestarsi nel tempo ciclico della guerra e della pace, tempo insensato proprio in quanto ciclico.

Il senso intrattiene un rapporto essenziale con la morte, cioè, così ha sempre pensato Lacan, inevitabilmente in un “moebius” con il non-senso. In questa commistione sta il fascino immortale della tragedia.

 Antigone, dice Lacan, rappresenta l’assoluto e in qualche modo mortale distacco dalle stabili sembianze del mondo, quelle che rispondono ai bisogni di sicurezza nella polis, sicurezza politica pur necessaria, che “non cessa di scriversi” nelle leggi positive e nell’Immaginario. Lei rappresenta il Simbolico in cui c’è anche la libertà di darsi a Thanatos nei territori della dea Ate e perciò dell’ineffabile Cosa primordiale. E’ un passaggio all’atto che, a differenza di una fuga nell’atto inconsulto, non passa per l’inibizione a volerne sapere oltre. Di esso tutto si può dire, meno che sia di fuga.

In fondo, ribaltando il famoso aforisma di Wittgenstein, si potrebbe affermare: “A fronte di ciò su cui nulla si può dire è fatale parlare”. E’ scandaloso, è paradossale? No, è la massima su cui si fonda la poesia e l’arte in generale e che, a dire il vero, poco entra nel meccanismo freudiano della sublimazione. E’ anche la massima che ispira ogni nutrice nel cinguettio della lallazione, del linguaggio segreto che stabilisce con il neonato e che rimane come eccezione femminile ad ogni sapere cioè a “niente che non abbia la struttura del linguaggio in ogni caso”…: non per niente al logico Creonte si oppone una donnetta.

Forse a questo punto andrebbe corretto soprattutto l’assunto della contrapposizione dialettica tra i bisogni di sicurezza e i bisogni di libertà, assunto centrale nell’antropologia culturale corrente insegnata, per esempio, dal compianto Carlo Tullio Altan nell’Università della mia città, con il riconoscere che di libertà c’è desiderio, tutt’altra faccenda del bisogno; e che il desiderio vada di pari passo con il linguaggio simbolico fin dall’inizio, per misterioso ed illogico che esso sia nella sua origine che con i bisogni ha ben poco a che fare.

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