Il godimento è passivo presupponendo un ente che ne goda.
Anzi, il godimento parzializza l’oggetto nella Cosa come primo significato del soggetto, o, se vogliamo, ritaglia l’ente (Dasein, Ich…) dall’Essere, formulazione netta che manca in Heidegger, malgrado il suo oblio (Vergessenheit) in cui invece potrebbe trovare posto non solo l’inconscio freudiano ma anche il godimento lacaniano. Allora, con un piccolo aggiustamento linguistico (reso lecito dal fatto che sia Lacan che Heidegger ne facevano tanti di più), si potrebbe, comprendendo i concetti di inconscio e di godimento, fare tutt’uno di Essere e Reale, (All)Sein e Realität, Etre e Rèel. Ma potrebbe un lacaniano assumersi la responsabilità di un tale monismo?
Nella sua contiguità con il verbo godere correttamente intransitivo, il godimento ne è il prodotto e non l’oggetto, per cui Lacan parla di sostanza godente e di parlessere come rispettivamente di un’origine e un derivato trasferiti entrambi dal significante nell’inconscio: “L’inconscio, è che l’essere, parlando, goda e non voglia saperne nulla”.
Passando sul lato della coscienza, nell’immaginario sul lato dell’Io e nel simbolico sul lato dell’Altro, diventa “plus-godere”, velleitario e fallico, eppure anch’esso un po’ passivo, in quanto inevitabilmente sado-masochistico alla prova dei fatti. La forma del godimento dipende sempre dal fantasma. È una ben strana commedia, non si sa mai se gode il soggetto o l’Altro. Il godimento inconsapevole che per Lacan è, come la pulsione peraltro, sottratto dal significante al mondo istintuale, al Reale della Cosa, diventa fenomenologico plus-godere, l’unico godimento che può existere per l’Io.
Ma per Lacan esistere non è lo stesso che essere, perciò non è detto che un altro godimento non possa darsi, sia pure inattingibile perché indicibile, fuori portata dell’Io e dell’Altro.
Qui atteniamoci a quello che esiste, cioè a quello che il nodo borromeo riesce a stringere: ma “con il godimento bisogna andarci piano, si incomincia con le carezze e si finisce con la graticola”… E’ del Reale come l’angoscia e la pulsione che, se hanno molto a che fare con il senso e la verità, hanno poco a che fare con il bene e la felicità.
Cioè con quello che diventa Lustprinzip, freudiano principio del piacere, insieme al suo necessario risvolto di dispiacere come presupposto, come consuntivo o come lascito nervoso. Si sa per esperienza che la partita timica del piacere è a saldo zero, anche senza tirare in ballo la costanza dell’energia e l’omeostasi come immaginava Freud ispirandosi alla fisica del suo tempo che, a sua volta, si ispirava a sistemi chiusi. Lo si sa soprattutto se si tira in ballo la metafora paterna del piacere, il sesso comunemente detto, un lavoro che sottostà, come ogni lavoro, al principio della conservazione dell’energia.
Per gli antichi, i piaceri si dovevano amministrare nella giusta misura, kàta ménon, se si vuole l’eudaimonia, dicevano, ma egualmente veneravano Diónisos, il dio del godimento e dell’eccesso periglioso.
Sono contraddizioni dell’esistenza umana finita, maschile, dell’Uomo che esiste nella struttura simbolica del Fallo in cui le contraddizioni prosperano e parlano, e delle donne quando vi si accomodano. Ci sarebbe anche l’Altro-godimento femminile, ineffabile, mai detto. Talvolta il godimento delle mistiche, anch’esso forse “scritto per non essere letto” come gli “Scritti” di Lacan a detta dello stesso Lacan.
La filosofia ha tradizionalmente mancato l’appuntamento logico con la differenza introdotta dalle donne nel mondo come significato e del pari l’appuntamento logico con la differenza di genere introdotta dal linguaggio. Chi potrà mai spiegare perché in tedesco la luna è maschile e il sole femminile? Ma ancor più genericamente ha mancato l’appuntamento ogni narrazione antropologica, ogni riflessione su di noi: “l’uomo è la misura di tutte le cose”, “l’uomo primitivo era così e così”, “l’uomo discende dalle scimmie”, “a misura d’uomo”, “homo sapiens”, ecc. E non solo nelle lingue indoeuropee l’umanità viene detta uomo. Una dimostrazione che in fondo noi pensiamo contro le parole mentre le pensiamo? Contro qualcosa di sicuro, se non altro contro la mancanza.
Mah!… La regalità del maschio che ha fatto suo il linguaggio è forse semplicemente compensatoria di un antico difetto di godimento che tuttavia, per logica ed essenza, è proprio del “non- tutto”, un difetto della vita in cui ha vita il desiderio. Da preservare. Prendano le donne il potere restando diverse, non-tutte, dall’Uomo e tra di loro.
Una volta una ragazza, puericultrice, mi ha chiesto come mai e attraverso quali accidenti nella genealogia umana il linguaggio ha potuto essere così egemonizzato fallicamente, quando invece è fin troppo evidente la sua origine materna. Ho resistito alla tentazione di confezionare e servirle su un piatto d’argento un ennesimo mito fondante, limitandomi a suggerirle di attenersi a “Totem e Tabù” mettendo in relazione il senso di colpa per l’uccisione dell’Urvater da parte dei figli con il Fallo o il Nome del Padre come puntelli simbolici per il senso, ma poi chiedersi, magari abbandonandosi a qualche fantasia, quale poteva essere stata la posizione delle madri in quei primordiali frangenti… Qui, fuori dai denti, mito per mito: se per caso non abbiano sperimentato qualche linguaggio segreto per sobillare i pargoli, con i contraccolpi che hanno rovinato il gioco…