Quando ero ragazzo ero affamato di informazioni, oggi, bontà della tecnologia, come tutti, giovani e vecchi, mi trovo a dover difendermi dalla tumultuosa quantità di informazioni, un’onda di piena che temiamo possa sommergerci ma anche che possa lasciarci indietro tra i detriti che ha provocato, tra i significati inattuali, per esempio i nostri libri, superati già anche solo in quanto libri.
Accade d’altra parte che un pletorico e autoriflessivo commentario avvolga di un’“aura” sacrale e protettiva i classici, che così possono restare felicemente non letti sia nei libri che sul display del computer, ma con migliori alibi nel secondo caso, per ragioni ottiche, perché vi scarseggiano, ma anche perché immaginiamo la sciatteria, l’ineleganza, di usare un mezzo troppo dissonante rispetto lo scopo che ispira continuità e lentezza, uno tra i tanti fantasmi del tempo. Questo mi fa pensare che il testo elettronico possa apparire di seconda scelta rispetto l’originale cartaceo e che i piagnistei sulla fine della carta stampata siano fuori luogo.
Già sta succedendo che il libro digitale, oltre a costare poco, valga anche poco nella nostra percezione venata di desiderio.
Essendo il nostro orizzonte valoriale per lo più il prezzo, si suppone che l’informazione preziosa, cioè quella che supponiamo ci manchi per poter accedere a qualche godimento a venire, sia nascosta in qualche libro il cui prezzo si stia adeguando ad una logica collezionistica, di rarità. Ogni libro diventerà l’autentico, si rivestirà di un’”aura” elitaria a dispetto sia di Gutenberg che di Benjamin, e non pare che questa qualità di feticcio si possa trasferire pari-pari in più moderni strumenti di comunicazione che possono bensì essere feticci per loro conto come l’ultimissimo, sempre ultimissimo, modello di smartphone.
Proprio perché oggi si buttano al macero intere biblioteche, non solo è augurabile, ma è anche possibile che la cultura libresca, lenta, diventi un lusso, a patto che vada a sostituire un bel po’ di altri sembianti senza dover ricorrere alle “leggi suntuarie” dogali che già Montaigne aveva scoperto essere fallimentari. Non è come buttare le vecchie radio a diodi: di un libro non si riduce la funzionalità e ha il suo senso in sé, quanto basta perché diventi uno status symbol. Non solo gli intellettuali, ma anche i “potenti” già oggi si fanno ritrarre con sfondo di libreria; prima o poi ci sarà anche qualche famoso calciatore che si farà intervistare in televisione con alle spalle una libreria ben fornita… Niente di male, anzi, spero che accada.
In attesa, nessun asettico Apple Center, nel suo silenzio claustrale sarà mai un luogo di cultura come lo è stato il negozio polveroso del libraio accigliato per quanto gli sfogliavamo i libri.
Mostrano di saperlo bene quelli che in rete pubblicano i libri in forma di trailer, con intercalate pagine bianche perfidamente “non comprese”. Sanno che la cultura è sempre rimandata.
La perdita di valore delle enciclopedie sembra più definitiva, ma è un vero peccato perché il rimpianto è tutt’altro che banalmente affettivo. Mi spiego. Il sistema dei links, per esempio di Wikipedia, o dell’ipertesto, può tradursi in piacere per il risparmio nel trovare alla svelta ciò di cui si ha bisogno, può indurci o aiutarci ad ampliare il discorso in atto, ma non può uscire dalla scialba coerenza celibataire dello sviluppo di un discorso preordinato e a sé stante. Non sa sparigliare.
Come non riconoscere invece il godimento del tutto casuale che interviene quando, nello sfogliare per trovare la pagina giusta nell’ordine alfabetico del lemma cercato, siamo attratti di sbieco da un altro lemma e argomento del tutto irrelativo, che non c’entra e che tuttavia si impone irresistibilmente, ci prende con un momentaneo effetto, per così dire, di femminilizzazione? Forse questo è il paradigma di un godimento buono che fa eccezione, un’eccezione generale implicata in una certa passività e una certa giusta distanza, rispetto il plus-godere cui si mira nella tensione dell’appropriamento, anche culturale.