Sbaglierebbe chi volesse vedere qualche formulazione metafisica nel lacaniano nodo borromeo che illustra il legame dei tre registri mentali del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario come tre anelli o maglie incatenati tra di essi in maniera che ognuno tenga gli altri due e che tutti tre si trovino liberi se uno qualunque dei tre non tiene. Non si tratta di un paradigma filosofico o del punto d’arrivo di una speculazione sull’Essere, si tratta piuttosto di una onesta finzione, una possibile raffigurazione o rappresentazione della condizione psicologica umana, il metterla provvisoriamente in forma come ipotesi riduzionista su cui appoggiare una ricerca, così come lo erano state le due “topiche” freudiane, anch’esse ternarie.
Al massimo può introdurci a qualche soddisfacente mito biologico riferito nientemeno che al rapporto tra soma e psiche. Ogni mito si fonda su un difetto di sapere che ecceda l’esperienza di “realtà”, se vogliamo “trascendentale”, difetto che in questa topologia è rappresentato nel Reale.
Neanche quando scrive i suoi più astratti matemi (le tre sigle RSI già lo sono, prese separatamente o insieme) o quando “fa lettera” di un nodo, Lacan finge di essersi sottratto al mondo dei sembianti in cui ogni discorso resta invischiato, semplicemente tenta di offrire modelli algebrici di relazioni per l’illusione di sapere costitutiva di ogni scienza trasmissibile. Illusione tuttavia fondata: la liberazione dall’immaginario è per una frazione di tempo nel movimento della mano che torce le cordicelle per annodarle, a rischio di impaccio nel condurre l’operazione e dover ricorrere alla superficie euclidea.
Tutto deve essere interpretato, persino un numero, i matematici moderni lo hanno appreso dai logici moderni, ma la vera ragione sta nel fatto che il linguaggio umano è il metalinguaggio di ogni altro linguaggio, scientifico o artistico, mentre non ne ha alcuno di esterno e superiore alla sua struttura che possa garantirgli un senso. Né la Natura né qualche Dio, entrambi da sempre immaginati un po’ bizzosi.
Uno scienziato di valore è anche un po’ epistemologo, quanto basta per sapere che l’ipotesi e il modello sono sostanzialmente finzioni formulate in ordine a un’altra finzione, la nuda verità sotto la veste della certezza. Mentre più vera è semmai la veste, l’apparenza…
Già che ci siamo, perché non procedere all’ennesima interpretazione dei tre concetti?
Il Reale è ciò che succede inopinatamente, che lo vogliamo o meno, che crediamo di capirlo o meno, la sua presenza è l’aspetto temporale della nostra impotenza a giostrare, tra godimento e angoscia, gli eventi che primariamente toccano il corpo.
Il Simbolico è il nostro situarci tra gli eventi percettivi solo nel riconoscerli come adeguati a significare qualcosa, rapportabili a un senso onnicomprensivo che consenta con le parole di “evocare l’assenza nella presenza e la presenza nell’assenza”; in sostanza quel linguaggio che sembra fare un po’ di presa sull’evento mentre in verità ha già fatto presa su di noi. C’è della logica del tipo “o la borsa o la vita” per cui la borsa sarebbe persa comunque e le parole evocano sempre solo l’assenza di qualcosa (sia nel “fort” che nel “da” del piccolo Ernst, il nipotino di Freud…).
L’Immaginario è la forma che acquistano per noi gli eventi percettivi in quanto vissuti emotivamente e fattisi traccia mnestica, tutte le Gestalten impresse nella stoffa dello psichico che riconosciamo e più o meno accettiamo. Mentre dei tre registri il Reale dovrebbe restare inspiegato, l’Immaginario resta in Lacan meno spiegato del Simbolico che può appoggiarsi al pensiero degli Stoici e di De Saussure. Per approfondire la disamina del concetto di immaginario si può anche leggere Castoriadis, ma non si esce dal giro vizioso di tracce mnestiche di esperienze che si riaffacciano scomponendosi e ricomponendosi trovando di che ordinarsi nel Simbolico come significative per chi le supporrà essere della realtà. Oggetti significati e attesi, allora. Nel mio, di immaginario, guarda un po’, resta forte l’impatto del cinema holliwoodiano dell’epoca roosveltiana.
Simulacri, figure di sensazioni, stralci di discorsi, pezzi di mondo, incontri antichi, a volte non sono nulla di là dell’intenzione di reperire o eleggere almeno una parola che dovrebbe esserci al loro posto vuoto e del tutto spaziale, sincronico.
Su questo magazzino o repertorio di rappresentazioni non strutturate solidamente Freud appose la targhetta di “preconscio”, mentre oggi la metafora più comoda per definirlo è la memoria del computer modulata e interfacciata per nuovi ingressi: ogni nuovo input sensoriale per diventare un item di esperienza e un dato di coscienza, sottostà a confronto secondo una data sequenza con altri dati immaginari. Lacan dice che “l’Immaginario, inaugurato nel rispecchiamento, è ciò che dà consistenza al Simbolico”, sarebbe allora il mondo dei significati oggettuali, la realtà che poco ha a che vedere con il Reale e che fingiamo speculare al mondo dei significanti. Il diaframma, la barra saussuriana che si frappone tra quel mondo (in cui c’è primariamente il corpo e l’Io) e questo (in cui c’è primariamente il senso e il soggetto, noi, il “parlessere”, quello che “può solo sostenere di avere un corpo, non di esserlo”…), corrisponde a due domande contrapposte e integrate: “di che si tratta?” e “cosa vuol dire?”. Detto altrimenti: com’è che ci facciamo un’idea di ciò che appare?
Freud, per rendere ragione della diversa natura delle rappresentazioni intuitive e intellettuali nell’accezione di Schopenhauer, suo filosofo di riferimento, coniò un termine straordinario, una parola composta come la sua lingua consente: Vorstellungräpresentanz, da tradurre con una forzatura, solo per capirci, rappresentazione di una evidenza.
Qui si apre il discorso strutturalista di Lacan che mette il Simbolico in primo piano. Ma qui c’è anche il compimento della rottura copernicana di Freud con tutte le filosofie “tolemaiche” e “sferiche” che pensano una realtà (o un Dio panteistico…) esterna o interna a noi e una coscienza comunque al centro che può metterci in contatto con quella. Una visione “classica” che Marx non supera.
A questo punto più che scervellarsi su una cosa in sé e su una coscienza per sé, dovremmo ammettere che siamo continuamente realizzati nel Reale per eventi pulsatori di godimento e pena: ecco in cosa il senso sincronico prevale sul tempo dell’evento, ecco come può apparire l’”eterno ritorno”…; che più che immaginare siamo immaginati nell’Immaginario; che più che pensare siamo pensati nel Simbolico (sempre “contro un significante”, dice Lacan, anche se pensiamo noi stessi, ovvero rappresentandoci più che giustamente in esso…).
Il significante è quel segno che, significando in un insieme solamente il suo differire dagli altri significanti a loro volta individuabili solo per differenza, struttura l’insieme trovando posizione funzionale per un ordine che non si ritroverebbe altrimenti, per esempio nella loro serie. Posizione tuttavia mobile, tra contingenza e necessità. La differenza, se la struttura non ha un totalizzatore, si manifesta sempre in un “ora” limitatamente, così che si possono individuare relazioni di flusso informativo. Gli elementi fuori di tale significazione puramente relazionale e differenziale ma riconoscibile in una forma, un affare nostro, sarebbero solo segni di eventi avulsi da qualsiasi senso, salvo che non sia imposto un ordine dall’esterno, meta-strutturale, per esempio da Dio.
Stabilite che siano le relazioni, il termine più usato per il loro insieme è quello di sistema. Questo in generale, così che un albero, per dire, possa essere immaginato e appreso come un sistema.
La famosa definizione di Peirce del segno come “ciò che significa qualcosa per qualcuno” non esprime un caso particolare rispetto il caso generale in cui segnerebbe qualcosa differenziandola da qualcos’altro (Aristotele parlerebbe di forma, morphè…) in un registro non necessariamente simbolico? Pertanto non è più adatta per il significante qualora, com’è ragionevole, per “qualcuno” si intenda un soggetto? Ciò che ha significato è un significante, ciò che è un significante ha senso, ma a chi pertiene la faccenda?
Il principio d’ordine, al quale le regole del funzionamento oggettuale nella struttura si possono riferire per qualsiasi risultato (effetti collaterali compresi), non è un motore primo o una causa originaria, è il suo particolare senso, tutt’altra faccenda, discutibile di là dell’essere inscritta come immanente o extra-determinata. Al senso, per esserci, basta un significante da orientare rispetto tutti gli altri e che non può non essere orientato.
A questo proposito mi è sempre piaciuto un esempio di cui però non ricordo la fonte che al momento non saprei rintracciare. Si tratta di un bassorilievo forse ellenistico in cui si vedono dei giovanotti che sembrano danzare scompostamente. Poco visibile, tanto che qualcuno deve indicarcela, in un angolo scorgiamo una palla e allora capiamo che è raffigurata l’azione di un gioco forse non molto dissimile dal foot-ball, ma di cui ignoriamo le regole. Forse che il pallone è la causa del gioco? No di certo, è un significante attorno al quale è possibile dare un senso alla scena.
Cos’è che ci fa pensare che il linguaggio nostro comunicativo abbia senso? Che un interlocutore non abbia da dubitare che ne possa avere di principio il messaggio che gli inviamo?
Sappiamo che a questo proposito Lacan induce la presenza dell’Altro, un terzo astante nella comunicazione, garante ipotetico ed elargitore delle parole. Se i giocatori del bassorilievo fossero invece dei danzatori, la sua posizione sarebbe quella del musico. Niente vieta che sia qualche danzatore ad alternarsi nel ruolo. Tuttavia non tutti e non sempre siamo disposti a fargli posto in ricezione riconoscendolo come alterità utile e buona. Specialmente nella modernità il tempo dell’ascolto soggettivo, dei significanti da elaborare, viene sacrificato in favore di un prontuario di formule “chiare e distinte” scritte da un Grande altro avulso dal gioco, oggettivo, totalitariamente sociale, che dell’Altro soggettivo è la parodia.
A garanzia del senso resta l’indicazione della palla in causa nella metafora, fuori metafora come finzione inconsciamente condivisa, forse inconsciamente concordata, che parlando ci si disputi e infine si possa giostrare un oggetto di valore, diciamolo, il Fallo, il segreto insieme del godimento e della verità.
Dante ha riferito su questa endiadi di godimento e verità nel Canto del Paradiso.
C’è di che supporre che il Fallo, tutt’altra faccenda del pene, pertanto del padre e della madre, resti un segreto irraggiungibile a meno di assumere la forma ideale di Agalma, l’ornamento valoriale degli antichi Greci, misterioso in quanto non d’uso né di scambio, mentre, se restiamo tra l’esempio metaforico e i miti analitici, un sufficiente godimento scorrerebbe comunque nella bellezza del gioco assicurata dall’agonismo, per traslato metaforico desiderio (lacaniano, simbolico), e dalle regole, per traslato metaforico legge (lacaniana, simbolica). Non manchi qui un riferimento al senso sessuale inconscio della struttura, riferimento che qui può essere affidato ai lettori “freudiani”.
Essendo il linguaggio umano simbolico strutturato nella semantica, ordine per l’immaginario possibile e dopotutto contingente, e nella sintassi, ordine, per così dire, più necessario, queste relazioni, allora tra parole, sono per Lacan, nel soggiacere al senso e nel ricrearlo, il lavoro della significazione che procede con metafore e metonimie. Queste significazioni possono essere assimilate rispettivamente a condensazione e spostamento se ci si riferisce alle cifre oniriche di Freud. Funziona sempre così, nella coscienza e nell’inconscio, nella veglia e nel sogno.
Le relazioni tra parole, le regole, sono per noi in gran parte pre-costituite nell’Altro come ipotesi di flussi informativi di verità più finzionali, cioè riguardanti un poter essere, che funzionali, cioè riguardanti un dover essere, caso, questo secondo, per cui la nostra ordinaria follia potrebbe diventare straordinaria. Per metafora, i giocatori nel bassorilievo diventerebbero schiavi al lavoro.