“La stranezza era che Bovary, pur pensando continuamente ad Emma, la dimenticava; e si disperava nel sentire quella immagine sfuggirgli dalla memoria tra gli sforzi ch’egli faceva per trattenerla”.
È facile osservare che nessuno si impegna più che tanto nell’elaborazione del lutto di fronte al suicida. Come se lo stesso suicida ci avesse già risparmiato un po’ di quel lavoro. Semmai proviamo dell’irritazione interpretando l’atto come aggressivo nei nostri confronti e soprattutto come esito di un presuntuoso discorso di colui o colei che osa comportarsi da padrone con il tempo negandone sfacciatamente l’essenza di rappresentare e misurare l’impotenza umana a decidere il destino.
Il trascorrere dalla nascita alla morte non è una sequenza, si sottrae all’algoritmo della causa e dell’effetto, il che può piacere o può non piacere a qualcuno. Prima che essere nel suo evento un tuffo nel Reale, un suicidio è un segmento mimetico del “discorso del padrone” fatto contro un ipotetico discorso umano universale, babelico e inafferrabile. Va talvolta alla perentorietà di un senso politico, come nel caso dei Kamikaze islamici che, avverte Žižek, si comportano, appunto, da padroni.
Mio suocero, riferendosi al suicidio di un suo figlio, fratellastro di mia moglie, mi chiese per anni se fosse un atto di coraggio oppure di viltà. Come spiegargli che un suicidio può essere letto come gesto di coraggio dell’Io e di viltà del soggetto o, viceversa, di coraggio del soggetto e di viltà dell’Io?
Il fattore reputazione è determinante per il suicidio di personalità pubbliche e in alcune società rientra addirittura nella norma di un galateo, per esempio nell’antica Roma o in Giappone.
Vi si può talvolta riconoscere qualche nobiltà civile classica, ma la chiave di lettura resta per lo più la rabbia e il relativo suo godimento che suppliscono a qualcosa che non c’è.
Un Mishima uccide atrocemente ed esteticamente sé stesso per la rabbia di non riuscire a trovare nelle parole altro che le parole stesse, con il risultato involontariamente ironico di farsi lui stesso personaggio di letteratura, fiction in cui si raddoppia la sublimazione letteraria. Mentre il reale si ritira come orrore privo di senso.
Pavese, quasi all’opposto, trova insopportabile che le cose non rispondano alle sue parole, che restino là, inattaccabili e nemiche. Disprezza il rovello amletico vedendovi l’inveterata viltà dell’intellettuale: “Donnette l’hanno fatto…”. Commette un suicidio esteticamente squallido, antiletterario e desublimato, ma a bell’apposta: “Ci vuole umiltà, non orgoglio”. Si uccide per dare alle parole dignità di realtà mentre Mishima si uccide per togliergliela reputandole false e vili.
In fondo, tra questi suicidi “di formato” e il suicidio delle “donnette” non c’è differenza, l’atto suicida supplisce sempre a ciò che manca perché i conti possano quadrare, perché si completi onorevolmente il racconto dell’Altro, racconto che altrimenti resterebbe deficitario. Ecco lo scandalo che vuole aggirare Hemingway, ma anche Emma Bovary!
Beninteso, ciò che manca insopportabilmente è la possibilità che ci sia un qualche genere di “rapporto” sessuale garantito da un Altro dell’Altro (sesso), cioè da un improbabile Assoluto che faccia da puntello a un senso della vita che non manchi di niente, neanche della fatica di fabbricarlo. Ha ragione il catechismo, il suicida abbandona ed è abbandonato da Dio scocciato da preghiere tendenziose ed egoistiche.
Il depresso si uccide perché non gli vale la pena di vivere, diciamolo più chiaramente, non vuole pagarne il costo: è il suicidio più successful, ma non manca mai la componente di una accusa mossa all’Altro per coprire la vergogna di “una viltà morale”. Il melancolico invece accusa solo sé stesso e affoga in questo sentimento senza drammi… Ma quale sé stesso?
Ci sono casi di suicidio di pura fuga, come quello dello sconsolato Benjamin a Portbou, ci sono casi evidentemente di espiazione oppure di onore, ma non manca mai in essi la componente di un atto d’accusa, talvolta di autoaccusa, scritto e letto con rabbia nell’atto.
L’odio suicida dimostra chiaramente la surdeterminazione dell’odio, la sua immanenza di condizione umana, ma anche la divisione lacaniana del soggetto, dato che spesso si fa precedere all’atto un dibattito interiore, di cui il monologo di Amleto, che nelle intenzioni dovrebbe portarlo all’atto, è l’esempio classico; ma in un’ottica di proiezione e introiezione, accusa e autoaccusa sono lo stesso.
Emblematica è la fine del figlio di Stalin, Jakov, che sopporta di essere prigioniero dei Tedeschi ma non di essere umiliato dagli altri prigionieri, se si dà credito a una versione dei fatti.
Un fattore decisamente nichilista è più presente nel suicidio differito con cui l’anoressica prende le distanze dalla sessualità materna e abolendo il corpo ne lava la “colpa”.
Straziante al pari dello spettacolo di Antigone che si impicca nella tomba, che Sofocle ci risparmia, è lo spettacolo che non ci risparmia il film coreano conosciuto con il titolo “The Housemaid” (1960) dell’auto-impiccagione dell’eroina, vittima sacrificale proletaria di una famiglia borghese: compie l’atto nel bel mezzo di un momento conviviale così che ogni festa sia guastata per sempre.
Il suicidio, che Lacan impietosamente definisce, se riuscito, come “unico atto riuscito”, si situa in una zona del senso tra il passaggio all’atto impulsivo e l’acting out in cui l’atto sostituisce del tutto la parola e il pensiero. Non saprei rapportare ai due poli, già difficili da trattare semanticamente, la proporzione di suicidi mancati rispetto quelli riusciti, che dalle nostre parti è a favore dei primi, qualunque deduzione se ne possa trarre, tra verità e teatro. Per poter commettere il suicidio, lo dico all’inglese, Ofelia giudiziosamente impazzisce portando seco molto più “metodo” di Amleto nel conseguire il suo scopo vindice e accusatorio della pochezza maschile, sia del padre Polonio che del principe. Il suicidio è un modo anche troppo energico di produrre senso per sé stessi e per l’Altro. Per gli altri non si sa.
Sembrano fare eccezione a questo genere vindice di intenzioni alcuni suicidi da romanzo, per esempio quello che Zagreus mette in atto con l’ausilio dell’interposto omicida Mersault nella “Morte felice” di Camus (il caso di chi viene suicidato è frequente e ben meno romanzesco), o il suicidio in stile Liberty di Peeperkorn nella “Montagna incantata”. Due esempi di remarkable personality, direbbe un inglese, che stanno a dimostrare come il suicidio possa essere il momento artistico per artisti mancati, ma in entrambi i casi il giustiziere sembra essere un soggetto che odia l’io ipertrofico, metastasi dell’io ideale, così che il suicidio sia vissuto come momento di guarigione di chi non odia altro che la sua malattia.
Il caso limite è di chi debba “prendere la morte come un’aspirina” nella massima di Robert in “Per chi suona la campana”: vorrebbe continuare a combattere e continua a combattere mutuando desiderio, sentimento e senso, da tipico eroe romantico. Preserva per l’Altro la pervicacia di un atto vitale che va oltre un immaginario “Io Ideale”.
Magda Goebbels invece compie la strage più completa, di sé e di sei figli per preservare il suo disgraziato ideale ad ogni costo: stare con il suo Führer…più tragica di Medea, non sarebbe mai volata ad Atene neanche potendolo fare.
Il crimine è sempre dell’Io, mai del soggetto.
Fatto tuttavia quell’accenno alla possibilità che un suicidio sia etico, non possiamo lasciarlo cadere: etico, infatti, appare essere il suicidio indiretto di un Salvo D’acquisto, emblematico per innumerevoli casi di accettazione della morte certa e imminente in cambio della salvezza altrui oppure per preservare l’ipotesi di un ideale che ecceda “l’ideale dell’io” in direzione dell’Altro.
È nel secondo dei due paradigmi che Socrate accetta di bere la cicuta. Ma anche che gli Zeloti di Masada compiono il loro capolavoro secondo il racconto di Giuseppe Flavio.
Nell’atto estremo resta irrisolto (solo gli imbecilli e gli psicologi pensano che tutti i problemi siano risolvibili senza pregiudizio per come sono stati posti) il problema di chi uccide chi o cosa; però dietro una Anna Karenina c’è un Vronskij che resta vivo per ricevere lo schiaffo dalla soccombente. Il Vronskij di Primo Levi è stato l’Antisemita.
È l’omicidio ipso facto l’alternativa, non si scappa! Ecco un altro dubbio irrisolvibile: non sarà che ogni morte, sempre virtualmente prematura nel mondo umano, possa essere vista dopotutto come un suicidio oppure come un omicidio? Quesito per vedovi.