“Finnegans Wake” di Joyce non è un libro illeggibile, almeno per chi sia di madrelingua inglese o almeno bilingue con l’inglese, meglio se poliglotta e con qualche nozione di gaelico. Nessuno di questi casi è il mio, perciò in quella lettura sono stato sconfitto.
Ma un fatto è certo, Joyce ha scritto un libro intraducibile, perché? Forse per vendicare Lalingua dalle elucubrazioni dei linguisti e l’inconscio dalla psicanalisi.
Forse, più banalmente, ha voluto anche alludere a una intraducibilità generale come fondamento e ragione inconscia della lingua.
Nell’operazione “Finnegans Wake” condotta nel territorio umbratile tra sogno e veglia, là dove le cose non sono ancora stabili, la valenza positiva che Lacan assegna all’amore di Lalingua (scritto così per significare la viva soggettività di una lingua materna) si conserva pur rivelandosi amore autoerotico: miracoli dell’arte. Verità.
Lacan dice che quelli in grado di leggerlo ne sopportano la fatica perché attratti dalla libido che vi serpeggia e fa sì che il sintomo e il godimento ad esso relativo in cui quella scrittura consiste appaia mutuabile e condivisibile. Certamente, dato che la scrittura di Joyce si integra in lui così strettamente da sostituirlo a livello soggettivo, tanto che il sintomo, ahimè ormai triviale, dello “scrittore d’avanguardia” lascia il posto al “sinthome”, la sua diversità racchiusa nel nome proprio di autore (sganciato per chiara fama dal senso del patronimico), lo stile di un uomo come la cosa sua più irrinunciabile accanto alla mancanza originaria, in cui gli altri, prima di dire qualsiasi cosa devono specchiarsi. È il caso emblematico della psicosi quando in uno stile trova di che umanizzarsi e di fronte al quale la clinica fa un passo di lato riconoscendovi il genio. Per esempio di Van Gogh.
Con il Joyce di “Finnegans Wake” possiamo fare i conti come con il nostro inconscio perché egli ci mostra come l’inconscio muove Lalingua, anche se non pare, con la stessa potenza autocratica con la quale muove il sogno.
Non c’è qualcosa di Finnegans nello spingersi di Lacan a privilegiare la lettera rispetto il significante? Non c’è dubbio che Lacan per arrivare alla distinzione di sintomo (simptome) e “sinthome” cerchi un po’ di sé nello scrittore irlandese e con ciò, per così dire, qualche aspetto di un caso nosologico che potrebbe riguardarlo in prima persona, oltre alla possibilità che gli si offre di poter coronare una nosologia psicanalitica tradizionale.
Nosologia, lo sappiamo, che nella sua semplicità fa uno sberleffo al DSM dell’APA, una rassegna di nosologia psichiatrica made in USA che in circa mille pagine distingue ed enumera centinaia di patologie, troppe, e migliaia di sintomi, troppo pochi invece. Figuriamoci che per la psicanalisi le patologie potrebbero essere contate comodamente sulle dita: psicosi paranoide proiettiva, psicosi schizoide introiettiva, psicosi maniaco-depressiva, fobia, dipendenza, nevrosi isterica, nevrosi ossessiva, caratteropatia. Ma la loro sintomatologia è viceversa infinita, soggettiva individuale, non standardizzata, e consiste nel rapporto, se c’è, che il soggetto intrattiene con l’Altro e con l’oggetto, rapporto in cui le istanze inconsce non devono essere catalogate in una diagnosi ma lasciate libere di dire le loro ragioni. Naturalmente finché non sconfinano in significati energici.
Le psicosi possono essere raggruppate come formazioni narcisistiche e precocemente difensive da e dell’inconscio che non può più esprimersi all’infuori di esse, come invece resta possibile nelle nevrosi. Per inciso: sarebbe improprio inserire in questo breve repertorio nosologico le cosiddette “perversioni” (in cui si vuole godere come Altro) che vi rientrerebbero solo se il soggetto ne viene gravemente intaccato nella possibilità, pura possibilità, di formulare la “domanda” intorno al godimento che si dischiude al transfert. Un vuoto soggettivo reso disponibile per l’inconscio come discorso dell’Altro.
Per la psicanalisi un sintomo non è per forza un difetto rispetto l’integrità, uno scostamento dalla perfezione, quanto un messaggio crittato per non sottostare a controlli eccessivi sulla sua natura desiderante e di godimento, talvolta non riconoscibile perché sublimato, trasformato e messo a servizio del Grande altro: una perfetta copertura sociale e morale. La sublimazione è resa possibile perché i sintomi risentono della plasticità simbolica tanto che la libido può investire indifferentemente un fantasma oppure un ideale eletto dalla legge interiore.
Mettiamo qui un punto fermo: a differenza che in qualsiasi professione, compresa quella di psicanalista, nella soluzione che Joyce attua per la sua vita, di adattarsi al sintomo e al suo “paradigma di godimento” non c’è sublimazione freudiana.
C’è forse allora, come in una psicosi classica lacaniana, la “forclusione” (espulsione simbolica) del Nome del Padre che realizza la totale definitiva sfiducia quanto al suo poter garantire un ubi consistam nella pulsazione fallica del Simbolico tra senso e non-senso? Non c’è prova di questo nella biografia né nell’opera. C’è la ben più grave (e comune) ripulsa dell’Altro? Neanche. Forse Joyce nega l’inconscio come fa un maniaco? Neppure.
Il Dublinese che per tre lustri fu nostro concittadino scrisse semplicemente nell’opera il suo stesso soggetto sintomatico (del godimento) alla stregua di chi facesse la famosa “passe” lacaniana, quel resoconto che si fa dichiarando a proprio rischio di aver oltrepassato l’analisi e di aver destituito la fantasmagoria dell’Io e dell’Altro per aver saputo diluire entrambi nel soggetto rappresentato nei significanti. Come quando si dicesse: “eccomi, questo io sono…” ma con ciò si passasse a dimostrarlo nell’atto quantomeno di metterlo nero su bianco per una narrazione resa leggibile all’Altro e ad un altro.
C’è solo un piccolo particolare, che Joyce non volle intraprendere una psicoanalisi. Tuttavia, nel presentare sé stesso ha ottenuto credito, è innegabile. Possiamo dire che l’ha ottenuto calcando di più sull’asse retorico metonimico, come Lacan, che su quello metaforico prediletto per esempio da Jakobson?
Comunque, il caso di Joyce che trova nella scrittura l’”autonomos” scartando il padre e, al massimo, raffigurandolo in Bloom, nel suo corpo ignaro, serve a Lacan per risolvere il problema specificamente freudiano dell’analisi finita e infinita, problema che si potrebbe esprimere in questa domanda: che c’è di paragonabile a un’analisi finita se non c’è psicanalisi? La risposta è vivere con il proprio sintomo facendone qualcosa al punto di poter farsene rappresentare in uno stile.
Noi “siamo” quando troviamo posizione nei significanti simbolici per esserne rappresentati al cospetto dell’Altro, una posizione dalla quale decidere e giudicare senza troppe titubanze, pur ammettendo che l’inconscio non si dismette affatto né si destituisce nell’accettazione di quella posizione a scanso di altre: torna semplicemente dietro il proscenio, ma resta il punto fermo che fa stile e personalità, possibilmente senza pregiudizio e fissità di opinioni.
D’altronde anche tutto ciò che del nostro destino può cambiare in virtù di una analisi consisterebbe in un cambio di posizione del soggetto tra i significanti. Null’altro, ma, fuori da teleologie escatologiche o messianiche, è tutto: ciò per cui la questione della verità diventi solo questione di giusta distanza per dare forma a qualche significato, alle anamorfosi della “realtà”.
La psicanalisi diffida di ogni identità, è in fondo un suo carattere anche politico. Respinge inoltre con decisione l’idea che esista una qualsiasi normalità umana a priori, cioè che prescinda da più o meno tendenziosi parametri clinici, estetici, morali e quant’altro: non solo quel pensiero fantasmatico può essere paranoide o fascistoide o entrambe le cose, ma da esso all’eugenetica il passo è breve.
Ha ragione Claudio Magris quando afferma che l’identità è un dato in movimento. E che è bene che lo sia, anche perché l’idea che ognuno ha di sé stesso in rapporto a tutti gli altri può riflettersi nel sociale: il nazionalismo (e il razzismo) può essere visto come il caso in cui il Simbolico non è riuscito a smuovere di un millimetro l’identità nell’Immaginario.