87. NON OMNIS MORIAR

 L’Io è un Tizio che non deve morire. Magari conosciuto appena, di vista, come si dice, ma a cui auguriamo buona salute. Invece il soggetto dell’enunciazione simbolica, che dice qualcosa immaginando di sapere quello che dice, non sa proprio niente della morte, che è nata chissà quando con il soggetto, non per esso, per quanto se la raffiguri in ogni oggetto, l’Io compreso. Si sa che non appena nei sogni l’Io sta per morire c’è subito il risveglio. Alla “realtà” stessa, nata con quella morte che è rimasta appiccicata a tutti i suoi significati oggettuali, non si può credere, non del tutto almeno, ci vuole qualcos’altro.

 A questo proposito c’è un bellissimo Witz che a Trieste viene attribuito al vescovo della città ai miei tempi, Monsignor Santin, che l’avrebbe pronunciato dopo aver impartito qualche cresima, certo più a favore degli adulti presenti che dei ragazzi cresimandi: “E, ricordatevi! Tutti dobbiamo morire, forse anch’io…!”.

 Freud una volta citò Bernard Shaw nella lingua della praticità e del realismo: “Don’t try to live forever, you’ll not succeed”. Ma è proprio nel “luogo del linguaggio” che può verificarsi l’eccezione. Lo stesso Freud lo ammise con la speranza di ogni autore che spera di lasciare non poco di sé nei lettori postumi: disse che era l’unica forma di sopravvivenza che conosceva. Ma dopotutto si tratta di ciò che gli antichi chiamavano “fama”, poter parlarne.

 Lacan qui fa un passo ulteriore, paradossale e vertiginoso come il passo di qualche profeta, lasciando intendere che nessuna parola va persa in quanto pertinente al senso (della struttura) e, allo stesso tempo, che nessuna parola può trasmettersi restando integra nel suo significato soggettivo in emissione. Lo dice in mille maniere, a cominciare dalla sua predilezione per il dire rispetto lo scrivere, con il corollario di non ritenersi un autore. Oltre a ricordare l’assunto del suo “Seminario sulla Lettera Rubata”, che ogni “lettera” arriva a destinazione, oppure la trasformazione dissipatoria dei significanti in tracce del Reale (che è l’assunto di “Lituraterra”), ricorderei la critica implicita alla fede di Freud non solo nella possibilità che un insegnamento si trasmetta integro ex post ma soprattutto nell’opportunità di credere che ciò possa avvenire anche in vita se ci si affida ai significanti di un discorso: vi corrispose la sua predilezione per i cosiddetti “matemi” al livello della significazione per ridurre il peso dell’immaginario nei significati. E anche l’oscillazione tra significato e senso nel gioco dell’emissione <>ricezione in ogni comunicazione umana.

 Solo apparentemente, in coda a una conferenza a Milano, smentì la sua diffidenza per ogni aletheia intesa come significato oltre che come senso, rispondendo allo psichiatra milanese che si lagnava di non capire un acca della sua prolusione: “Non si preoccupi, tra dieci anni tutto le sarà chiaro…”. Stessa risposta dette al genero che lo intervistava alla Televisione francese. Ed era già anziano.

 Nessuna contraddizione, le gocce che le nuvole mandano sulla terra non tornano tali e quali alle nuvole, ma tornano tutte. Le nostre parole tornano all’Altro che, “non consistendo”, non muore: animo, cari Soggetti, siete immortali! È l’Io il solo significato (od oggetto) del quale mettere in conto la morte. Tra i significanti invece il soggetto è tutto ciò che eravamo e ciò che saremo. Tra i nostri, di significanti.

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