88. LA GIUSTA DISTANZA

È il titolo del recente film di Mazzacurati che dipinge il tessuto sociale di un paesotto del Polesine facendone lo sfondo per una tragedia degli equivoci. Un quadro gotico e un presepio di personaggi vittime di una modernità d’importazione, tutta giocata nella dimensione dell’Immaginario, del come le cose devono essere per evitare i problemi, dimensione in cui viene meno ogni rapporto soggettivo che vada oltre lo schermo dei ruoli assegnati. È la società del “senso comune” in cui i significati sono distribuiti a piene mani perché il desiderio se ne possa saziare e tutto debba filare liscio.

 C’è il bottegaio laido che, giustamente, si immagina e si pone al centro delle relazioni rappresentandone oggettivamente la logica post-moderna, c’è il giornalista in erba che non si rassegna a che nulla accada che valga la pena raccontare, c’è il suo mentore, giornalista scafato che preconizza per un buon giornalismo una giusta distanza dai fatti, c’è il meccanico immigrato mussulmano sufficientemente integrato, c’è il giovanotto di belle speranze, guidatore d’autobus, tutti interessati alla testé arrivata graziosa maestrina, Mara, che, venendo dalla città, della modernità (e del godimento) dovrebbe saperne di più. Senza troppa ironia, la città potrebbe essere anche Rovigo, che in veneto, si sa, fa la rima con “no me intrigo”.

 Quando, all’inizio del film avviene qualcosa di dissonante, l’uccisione inspiegabile di alcuni cani, la piccola comunità sembra restia a parlarne, non si vuole correre il rischio che le cose appaiano diverse da come si suppone che debbano essere. Indagare? Non ne vale la pena.

 Il meccanico magrebino, gentile e dignitoso, si innamora della giovane che gli si concede spensieratamente, perché le piace e per uscire dalla solitudine del momento, senza tener conto della profondità dei sentimenti e della diversa cultura dell’uomo. Lui vorrebbe sposarla ed è troppo cocente la delusione quando capisce che lei ha altri progetti. Nessuno dei due, si direbbe, ha tenuto la giusta distanza.

 Quando la ragazza viene trovata uccisa, non c’è da cercare lontano per individuare indizi e moventi, nessuno ha voglia di pensarci troppo a rischio di dover entrare nella vita degli altri; Hassan è arrestato, giudicato colpevole dell’assassinio e condannato.

 Protesterà la sua innocenza suicidandosi.

 Solo il giovane aspirante giornalista, quello che, a differenza degli altri paesani comprimari, non si cura di rispettare la giusta distanza, tanto da indulgere a spiare la corrispondenza nel computer della maestra, ha dei dubbi quando la parola “innocente” gli perviene tramite la sorella di Hassan, cosa che invece non turba minimamente il suo avvocato. Indaga invadendo inevitabilmente, com’è da lui, giornalista, gli spazi privati degli altri e, vero deus ex machina nel dramma, ne trova la soluzione giallistica.

 “La giusta distanza è la misura che tu devi tenere tra te che scrivi e le persone coinvolte nei fatti: non troppo lontano, perché si perde il pathos, ma neanche troppo vicino, perché se un giornalista si perde nell’emozione è fritto”. Non è male il consiglio che lo stregone Bencivegna dà a Giovanni, l’apprendista stregone, apparentemente si potrebbe adattare alla tecnica di ascolto di uno psicanalista.

 La cosa più ovvia, indiscutibile: una distanza, giusta o sbagliata, tanta o poca, è un dato di misurazione, richiede due punti e una unità di misura per stare nella dimensione quantitativa della nostra presa sul mondo. Anche sul mondo soggettivo, degli affetti? Suonerebbe quantomeno strano.

 Se Lacan traduce dimensione con dir-mensione, dire la misura, parla chiaro, non è un luogo per soggetti, perché un soggetto è rappresentato tra le parole, esiste in relazione ad esse nella struttura simbolica, un gioco di pure relazioni e correlazioni che esclude distanze e misure: risponde a qualità, non a quantità.

 Due punti e un’unità fissa, abbiamo detto, faccende dipendenti proprio da quell’Immaginario che si incorpora nel transfert e che l’analisi attaccherà fino ad espellerlo nell’evanescenza del transfert stesso, fatto salvo l’amore del dire, del comunicare, in cui c’è il desiderio di annullare la distanza accettando il rischio etico. Anche nella forma di assumersi la responsabilità della trasgressione come fa del tutto soggettivamente il giornalista in erba del film.

 Tutt’altro che ciò in cui consisterebbe una giusta distanza, immaginare un mondo come si deve, adattato al Grande altro in cambio di godimenti tanto temperati quanto spensierati.

 Per parafrasare a rovescio una formula di Magris a proposito della crisi del finis austriae che si riflette nella poetica di Kafka come irruzione di una modernità che ha tutta l’insensatezza del Reale, “ le cose non sono più al loro posto e la lingua non le dice più”, potremmo dire che a Concadalbero, il paese immaginario del film, “le cose sono messe al loro posto di là delle parole”: ci si affida al Grande altro della città, manzoniano “senso comune”, che le fissa per bene, come devono stare, in giusta distanza tra loro tra tutti i punti, così che una topologia inquietante si spiani in una topografia. Se poi ci si aggiunge un po’ di toponomastica il gioco è fatto.

 Il mondo di Concadalbero tutti noi lo riproduciamo quando non vogliamo avere problemi e ci mettiamo in posizione opposta all’etica, nella giusta distanza interiore soprattutto dal desiderio inconscio, inscindibile dalla legge non quantitativa del significante.

 È in quello spazio vuoto di domande (opposto alla mancanza di risposte) alluso nella nebbia ora gommosa ora rarefatta nelle immagini del film, che avvengono le cose peggiori.

 Per diradare quella nebbia serve l’atto etico “extra lege”, una scommessa in fondo, come dire in fondo a sé stessi: allora Giovanni rintraccia per vie illegali le chiamate sul telefono dell’uccisa.

 Dimostra così che la giusta distanza nelle faccende della nostra vita, coinvolta com’è con e nell’Altro, non esiste e non si dovrebbe pensare che esista fuori da ciascuno di noi: può trattarsi di decidere tra etica e buona educazione, il rovello del “piccolo borghese”. Se non è una misura geometrica, forse è la misura di una tensione: quel pathos residuale (residuale del “disincanto” weberiano) che, pur facendo problema al vecchio giornalista Bentivegna nel suo mestiere, è ciò che può tenere in forma un intreccio o, al minimo di un intreccio, un nodo. Nel caso nostro nel soggetto inteso come struttura significativa. In un nodo tra desiderio, Legge e godimento come quello che tiene avvinto Giovanni e lo fa agire secondo l’etica disincantata del “private”, l’investigatore del noir americano, l’immoralista per amore della verità che riconosciamo come l’ultimo eroe letterario ancora credibile ai tempi nostri. Capace dell’atto etico, questione sì di giusta distanza, ma di sostituire all’oggetto del desiderio il desiderio stesso quando la nostra azione coinvolgerà gli altri e non si sa bene che pesci pigliare.

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