90. SUPPONENZE

 Penso che oggi non solo si possa ma dopotutto anche si debba ignorare chi fosse stato Achille Loria, economista, comunista immaginario e tuttologo fin de siecle, ma che non si possa ignorare in tutta la portata della sua significazione il sostantivo che ne deriva: “lorianismo”. È un paradigma che dobbiamo a Gramsci: un suo chiodo fisso, non smise di elaborarlo per più di vent’anni, da uno dei suoi primi articoli sull’Avanti fino alla fine dei suoi giorni.

 Il “lorianismo” è notazione squisitamente etica. E’ la propensione a formulare teorie apodittiche o fantasiose da parte di pseudo scienziati o di opinionisti notabili che, profittando di circostanze pubbliche come contesto compiacente, trascurano allegramente tutto ciò che si frappone tra ipotesi e tesi, cioè un entroterra critico che, se magari sarà insufficiente ad assicurare inattaccabilità alla teoria, almeno predisponga per via di documenti deduttivi o induttivi un territorio minimo in cui possano mettere piede controdeduzioni o contro induzioni.

 Ma Gramsci è troppo fine per impegnarsi a fare sprofondare il personaggio nel dileggio come fecero Croce, addirittura Engels, o un Labriola (che poi da Loria non era tanto diverso) oppure nel moralismo. Gramsci conosce bene sia l’autonoma portata euristica, quasi sacrale, delle ipotesi fuori contesto, in fondo dei miti allegorici (ne è un esempio l’ingenuamente lorianistico “Thalassa” di Ferenczi), sia quanto di finzione è ritrovabile nell’assunto newtoniano “hypotheses non fingo”. L’Immaginario non si lascia far fuori facilmente: perché dovrebbe?

 Perciò la damnatio di Loria non avrebbe ragione d’essere se non fosse per quel “profittando di circostanze pubbliche come contesto compiacente”. Per esempio, per parlar chiaro, né Wilhem Reich né Georg Groddeck, entrambi grandi apodittici, hanno “profittato” …

 Gramsci individua nella categoria “lorianismo” un costume nazionale che non sa quanto sia radicato o quanto sia emergente, non tanto una diffusa attitudine all’impostura o anche solo alla mancanza di serietà da contrapporre a rigore intellettuale, ma soprattutto un’ideologia diffusa che privilegia il poter essere reputato vero rispetto il dover essere vero, anche laddove non sarebbe il caso, nei d’intorni della scienza, fuori dal momento ipotetico.

 Credo che non gli sfuggisse quanto tale ideologia possa sposarsi con la modernità: oggi grattando la superficie del beneamato metodo scientifico che la avvolge come una condivisa fede escatologica, sotto-sotto appare sempre la definizione icastica della modernità che dobbiamo a Ettore Perrella: “Poter dire qualsiasi cazzata”. In altre epoche si dicevano cazzate formidabili, ma non qualsiasi, contemporaneamente e impunemente: per esempio Lombroso spese la sua dimenticabile vita pubblica e scientifica su due o tre cazzate soltanto. Dopo Hegel, vengono sì Nietszche, Marx e Heidegger, ma infine l’ilare Rorty che per non dire nessuna cazzata le ammette tutte.

 La psicanalisi, inaugurale della modernità, tanto quanto la fisica post-meccanica, nel decretare per il soggetto l’evanescenza di un Uno fenomenico come immagine di certezza, è stata tacciata spessissimo di “lorianesimo”; né i suoi addetti, eccetto alcuni scientisti per lo più finiti nel pantano che volevano prosciugare, si sono dati molto da fare per rintuzzare questa accusa, i lacaniani meno di tutti. Sono finiti per formare qua e là allegre brigate di grafomani funamboli del senso e prestigiatori della semantica per seppellirvi la perplessità di fronte a qualche aporia.

 Devo prenderne le difese in toto. In un clima politico spesso avverso, confinate le loro pratiche per scelta o per avventura in un ambito privato, non hanno coltivato il loro campo “profittando di circostanze pubbliche come contesto compiacente”. In verità, a parte alcuni casi isolati come il caso lugubre di Verdiglione, gli psicanalisti non hanno fatto parlare male di sé sul piano dell’etica, dell’assunzione di responsabilità soggettiva, rivendicando a viso aperto il diritto ad una posizione che da ipo-tetica o, più precisamente, suppositiva di un soggetto che sa qualcosa ma non sa cosa, si fa, per quanto è possibile, a-tetica. Intemperanze e fumisterie apodittiche non sembrano accompagnarsi quasi mai al tono tronfio o reboante del retore loriano che assesti micidiali colpi di verità, semmai alla sofferenza di non riuscire a dire cose complicate con un linguaggio semplice ed egualmente argomentato.

 Un incontro serio tra scienza e psicanalisi può esserci al livello di una epistemologia, per così dire e come vuole Lacan, al quadrato, tolto cioè il privilegio arbitrale del senso prestabilito.

 La psicanalisi vive come suo privilegio culturale e teorico l’angoscia dell’insensatezza irriducibile del Reale, della scivolosità di ogni aletheia, dell’impossibilità di una composizione della condizione umana, dell’incompletezza che irride l’Uno inteso come identità conoscibile. Trasforma in una teoria lo sberleffo con cui l’inconscio si sottrae alle idee chiare e distinte: si può vivere egualmente anche senza di esse.

 E nella sua pratica? Il dover privilegiare il momento suppositivo per assecondare il gioco infinito delle interpretazioni mostra inaspettatamente un lato buono o almeno utile del “lorianismo”. Il campo del “poter essere vero” non deve essere privo di qualche dignità, se Aristotele lo indicava precisamente come il campo della poesia.

 Anche il lorianismo può trovare il suo riscatto, al patto di frapporre tra il dire e il detto uno stile semiserio adatto alla mitologia, o indicare con chiarezza che si è attraversato il confine dalla scienza all’arte, che esiste come varco per qualche verità solo in virtù di uno stile. Non di una maniera, che mira sempre a “profittare di circostanze pubbliche come contesto compiacente”.

 Ma ora non posso esimermi dal rendere onore ai miei concittadini che, quando era meno opportuno e facile, “redenta” appena Trieste, rifiutarono, per celebrare Hortis, di pubblicare uno scritto del Loria, emerito senatore del Regno, gloria d’Italia come filosofo, economista, sociologo, nonché linguista, scritto che però voleva dimostrare la relazione diretta tra “la quantità di consonanti nel parlato e l’altitudine sul livello del mare del luogo di vita di una popolazione”.

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