Come ogni cosa anche la verità è infine un fatto di corpo o anche di corpo: si riconosce, se avviene, per la soddisfazione che porta un allentamento del tutto temporaneo e occasionale delle tensioni nel nodo borromeo di Reale, Simbolico e Immaginario. Un effetto di riequilibrio nervoso a lato del godimento. Qualche verità è allusa e promessa là dove si giostrano le parole mentre sulle cose non abbiamo presa alcuna. Se si agognasse una verità di marca superiore, più “reale”, pertanto che non escluda nulla, neanche la Cosa pulsionale, è con la verità del desiderio inconscio che dovremmo vedercela, perciò con l’estetica o la metafisica, “patologiche” entrambe come sono, inquinate d’Eros, ben prima che con la scienza cui basta la certezza.
Questa dell’inconscio è l’unica possibilità di esistenza di una verità primaria ancorché scabrosa di là della sua eterna secondarietà rispetto le domande che sfrangiamo dal fondamentale, anch’esso abbastanza primario, dubbio esistenziale.
Cos’è il dubbio esistenziale, metafisico, il “to be or not to be”, se non l’ammissione di avere sacrificato il Reale del corpo, la Cosa insensata, per inseguire ciò che ne residua, l’oggetto del desiderio, tra le parole? Nel mondo animale del bisogno, nel Bios, la verità c’è già, si chiama istinti, ma la verità che noi vagheggiamo è nel nostro mondo del desiderio, dell’incompletezza e della pulsione. E della morte, con il suo carico di raffigurazioni e significati più o meno macabri, ma in primis quello di certezza e verità corporea, organica, mentre per l’animale di significati non ne ha alcuno, data la continuità bio-logica della specie e dell’individuo. Una provocazione cui la scienza non si sottrae, pur con il carico di zavorra della certezza ad ogni costo, magari un peso eccessivo della verità di Darwin.
La verità umana è del Simbolico, ma guarda al Reale oltre l’Immaginario. Tuttavia, il Reale cui possiamo guardare, a portata dello sguardo inappagato dalla prima immagine retinica che trova, è nel corpo, non altrove, rimbalza nell’Immaginario, e il desiderio di sapere una verità ulteriore può apparire all’orizzonte solo quando un dubbio sui godimenti ha preso la via delle parole per un senso, a quanto pare, insoddisfacente, dal che cosmogonie e metafisica a tallonare la scienza.
Se la verità, oltre ad essere una risposta (pratica?) all’incertezza e pertanto, in sé, un effetto di dubbi ed enigmi, oltre ad essere il rovescio (non l’opposto) della menzogna, è anche un augurabile oggetto del desiderio di sapere qualcosa di più su di noi, ebbene, “niente si può sapere che non sia del registro del linguaggio”. A ciò nessuno può obiettare in fil di logica, potremmo aggiungere solamente che il registro del linguaggio è anche il registro sessuale del tutto irrisolto per quanto, mi si perdoni la circolarità, possiamo saperne soprattutto in psicanalisi.
Se si volesse dare statuto ontologico alla verità che, per quanto detto, alla fin fine dovrebbe essere scritta sempre al plurale, è nient’altro che il fatto di cercarla come tutti noi in qualche tratto di vita ci ritroviamo a fare. Pertanto, a scienziati e filosofi va levato di testa che possa esistere senza ciascuno di noi…
Se non la si può dire tutta, la Verità, dice Lacan, è perché “mancano le parole, letteralmente”. In compenso, a tutte le verità in progress rimane sempre appiccicata, per una sorta di loro viscosità, una quantità pressoché infinita di Fedi escatologiche, scientifiche e filosofiche cui affidarsi, e una quantità di fedi in oggetti più terreni di cui impadronirsi, ma entrambe esito di scelta di parole che delle parole occultino l’infinitezza in favore dell’immaginario, dato che colmarla è impossibile.
È strano che oggigiorno, nel nostro mondo che dovrebbe essere tanto secolarizzato, latiti il corrispettivo laico della virtù teologica della fede, la semplice fiducia. Da esercitare tranquillamente, senza appoggiarla a gerarchie e senza diffidenze di principio. Semplice e addirittura banale, ma senza la quale il mondo non andrebbe avanti: fiducia nel postino, nell’idraulico, nel medico, nel candidato politico… Proiettiamo semplicemente la rassegnazione al limite dell’etica nostra individuale? Perché non dell’amore?