Sono dell’opinione di quel linguista che sostiene che le parole non solo parlano ma pensano per noi; pertanto, non credo che nella comunicazione si possano sbrogliare veramente idee complicate, nozioni difficili, segni di quella complessità che, nelle aperture dell’inconscio, è arrivata alla nostra coscienza, con un linguaggio facile e semplice. Tutti i filosofi lo sanno, non ultimo Hegel. Ancor meglio lo sanno i poeti.
Resta il rammarico di non poterlo fare e resta talvolta lo sforzo etico di avvicinarvisi.
Quando, in chiusura di una intervista televisiva, Jacques-Alain Miller provoca (retoricamente) Lacan sui grovigli del suo stile citando il detto per cui ciò che si concepisce bene si presta automaticamente ad essere enunciato con chiarezza, il suocero ribalta il detto: una enunciazione chiara e semplice può semplicemente dare luogo tra i significanti a qualche concetto facilmente disponibile sul mercato del senso comune, mentre è più probabile che qualche verità emerga da un lapsus o da un gioco di parole.
E poi sappiamo come sia labile il confine tra semplificazione e banalizzazione soprattutto se si deprime uno stile.
Non ho simpatia per la filosofia di Heidegger, lo dico con semplicità, ma come non ammirare la chiusa di una sua lettera a Medard Boss, l’amico psichiatra con il quale si apprestava a collaborare per il famoso seminario di Zollikon: “…quanto più le cose diventano semplici, tanto più difficili esse sono da dire”. Pare quantomeno improbabile che sia vero l’opposto.
Tuttavia, quando un dire rischia di avvitarsi su sé stesso c’è sempre la scappatoia dell’arte poetica per preservare una significazione. Sembra che lo abbiano scoperto in tempi non molto lontani e quasi simultaneamente incrociando stili e competenze sia i filosofi sia i poeti, ma Rilke un po’ prima di Heidegger…
Metafore e miti vanno benissimo quando non è possibile dire le cose come stanno, per limiti interni o esterni, cioè sempre. Anche il pensiero selvaggio poietico di miti ha non meno dignità evolutiva del pensiero negativo che si auto-supera, ci insegna Levi Strauss.
Molti invece attendono che venga offerta l’occasione di procedere nella narrazione del mondo con metodo e stile tomistici, sontuosamente.
È il caso, oltre che del discorso religioso, anche del discorso universitario, in cui però l’enfasi assertiva, quel poco che è concesso, deve restare intra moenia, non deve uscire dal suo ambito, per timore dell’effetto Wagner, i cui “crescendo”, per voler significare troppo non significano niente. Il discorso dell’Università si accontenta di rimescolare continuamente i significanti che si sono prodotti fuori dal suo ambito.
Meglio allora, nel mondo della cultura, non nel mondo dell’Università, qualche raccolta di aforismi, senza pretese architettoniche, come una composizione di Schönberg che deve trovare la sua architettura nell’ascolto.