È fuor di dubbio che c’è dell’antipatia nei confronti del tempo. È raffigurato come memento mori, un vecchio iroso o un teschio. O Cronos che si ingozza dei suoi figli. Non sappiamo cos’è, non lo sa nessuno, ma l’abbiamo in antipatia, il che va oltre lo scacco ontologico descritto da S. Agostino.
Non è lo stesso per l’altra “forma a priori”, lo spazio: specialmente se non è troppo o troppo poco, lo spazio lo conosciamo e l’amiamo. Là ci sono già le cose che non devono sorprenderci all’improvviso e lo sguardo, se le scorge, ne può godere a piacimento.
D’altronde, sempre il troppo stroppia, claustrofobici e agorafobici sono a testimoniarlo.
Ma il tempo, se appena ci accorgiamo di esso, con il ticchettio dell’orologio, per esempio, ci innervosisce anche quando può dirsi di giusta misura, né troppo né troppo poco; forse il fatto è che raramente il tempo, a differenza dello spazio, ha la giusta misura. L’attimo ghermito così bene da cambiare il destino a nostro favore ha anch’esso un dio, Kairos, ma semisconosciuto, forse data l’improbabilità del suo presentarsi.
Lo spazio infinito è pensabile, sia pure come “cattivo infinito”, ma, curiosamente, sembra che in Occidente il tempo debba avere o un inizio o una fine, tra Big Bang, buchi neri, genesi, millenarismo, messianismo, bollitura della pasta. Una volta una contadina tirolese mi ha detto: “Tutto ha un inizio e una fine, solo il würstel ne ha due!”.
Comunque riusciamo a parlarne, a definirlo, solo con le parole che usiamo propriamente per lo spazio oppure per eventi messi in serie, che di esso, in quanto puro tempo, abbiano ben più consistenza. Sequenze in cui scoprire algoritmi per giustificare gli eventi ex post distinguendoli in cause ed effetti. Gli algoritmi, in spregio alle parole, si fanno predittivi per regolarità future che ci addita il tempo trapassato dell’esperienza e quello appena passato dell’esperimento.
Quando mancano le parole è sempre in attesa una verità: forse il tempo è la verità dello spazio, ma non pare sia vero l’opposto.
Se nel tempo è l’inquietante contingenza del Reale contrapposta all’ineluttabilità del passato, non per questo il significato dello spazio si esaurisce nella necessità. La loro relazione scrivibile, tra due quantità che potrebbero essere pensate come infinite, è mediata dalla velocità, che invece non ce la fa a esserlo.
Lo spazio è condizione di una res extensa, invece ci sono cogitazioni senza spazio né tempo perché sono nel tempo. Per porre fine a ogni disputa tra materialisti e spiritualisti basterebbe forse riconoscere che la materia, per i fisici massa gravitazionale, altro non è che il mondo cui sia sottratto il tempo, meno implicato dell’energia e più adatto per astrazioni spirituali.
Ci sono padroni dello spazio, si può diventare un Grossgrundbesitzer, più o meno grosso, ma chi mai potrà essere padrone del proprio personale tempo? Forse il “persuaso” di Michelstaedter che fa quello che fa nel tempo e con il tempo invece di volere aver già fatto, come quasi sempre ci accade di volere. Rari sono i persuasi. Forse un devoto dipintore di icone, in onta ad ogni “Übermensch” ma anche ad ogni vero lavoro.
La famosa dialettica del padrone e del servo, lungi dall’essere una lotta di solo prestigio (lo diceva Lacan: “non bisogna esagerare con la storia del puro prestigio”) si svolge nell’equivoco del potere che mette in gioco lo spazio e il tempo. Il padrone sprezza il primo e sceglie lo spazio. Un’autofregatura: non vi si può goderne continuamente, bisogna difenderlo, farlo fruttare…ben poco ne resta nell’avello. Ci si può chiamare Enrico I, II, III, ma prima o poi bisognerà cambiare nome perché gabellare il potere per gloria che travalichi spazio e tempo ha i suoi limiti nella contingenza degli eventi: non per neutra usura gloria transit.
Il servo, che servo diventa perché non gli garba proprio di morire così, subito, mentre il padrone fa mostra di accettare di correre il rischio, si accontenta del tempo, di un po’ più di tempo: sarà tempo/lavoro sempre troppo o troppo poco.
Il più classico e antropologico degli esorcismi immaginari del tempo come destino e negoziazione con la morte è il lignaggio, che imita in piccolo la dinastia della stirpe alienando il tempo della vita nella prole.
La morte viene sprezzata o temuta, ma praticamente viene espulsa dal tempo della vita, comunque, insieme con ogni possibilità dionisiaca che poi sarebbe semplicemente il godimento extra o prelinguistico dell’”Urvater”: impossibile, già il “puro prestigio” sarebbe apollineo, cioè cultura, in vista di esequie… In palio contro il tempo resta il sapere sul godimento che illude il perverso a lato della castrazione simbolica.
Il bambino guarda, può guardare. Far diventare qualcosa la macchia. Può dormire. Ma non può sottrarsi all’evento cacofonico che lo sveglia di soprassalto. Può eliminare il kakòn che si appresenta nello spazio, chiudendo gli occhi, ma non può sottrarsi all’angosciosa attesa della nutrice che deve apparire come eu e kàllos nella parola affinché gli valga la pena di procedere per diventare uomo o donna nel con-sesso umano. In ciò sta probabilmente l’origine della promettente parvenza dello spazio e della malignità del tempo. Non so perché, ma lo sguardo maschile sembra sempre a caccia dell’immagine promettente più di quello femminile.
Il tempo è in definitiva la misura dell’impotenza umana a risolvere problemi dello spazio, cioè prima di tutto del corpo, misura negativa o positiva di godimento indifferentemente, dato che si può intendere l’omeostasi come zero (il godimento non è un “bene”).
Tempo di attesa, fretta, tempo di sopportazione, tempo che manca, tensione, imprevedibilità e irrimediabilità, scadenza, noia, impossibile puntualità di incontro.
La logica paradossale di Achille che non può raggiungere la tartaruga nella corsa ma solo superarla si presta anche ad essere la metafora dell’orgasmo in quanto difficile sincrono-logia.
Lo spazio illude, il tempo delude. Quanto ci siamo dedicati al tentativo di eliminarlo o almeno padroneggiarlo! Una maniera per padroneggiare è capire: niente da fare, in fatto di geometria la sappiamo lunga da tempo immemorabile ma sul tempo siamo debolini. Si è detto che non esiste e si è detto che è tutto, che è ciò che non muta e che è ciò che muta sempre, ciò che ci esclude oppure una nostra costruzione, ordine causale o di pure relazioni e differances, percorribile a ritroso o irreversibile. Reale presente (un luogo impossibile, l’intervallo) o durata immaginaria.
Va annotata la discrepanza tra la teoria schiettamente sincronica della psicanalisi e la sua pratica in cui il tempo in tutti i suoi aspetti immaginari tradizionali gioca un ruolo decisivo. Con geniale intuizione psicologica Lacan porta nelle sedute il tempo logico soggettivo, fatto di evento istantaneo della presenza, di una sua dilatazione per considerare la questione e di una sua nuova contrazione nella fretta di concludere. Il tutto, come mostra nell’”apologo dei tre prigionieri”, in relazione a informazioni che il soggetto trae in uno spazio logico esterno, per esempio quello del transfert tra il divano e chi sta dietro. Del tempo, in quanto ai suoi dilemmi filosofici, non ci dice molto di più dopo averli addebitati ai flussi d’informazione della catena dei significanti nella struttura simbolica, flussi che peraltro appaiono così deformi o informi nei sogni…
Nei sogni ogni oggetto/significato si trasforma in qualcos’altro senza che un senso interpretabile venga meno: la tradizionale difficoltà di stabilire oggettivamente il senso delle trasformazioni onirico/simboliche (difficoltà per gli aruspici, per gli psicanalisti seri è semplicemente impossibilità…) è da addebitare al fatto che, se la causa delle trasformazioni è, credo, il difetto di senso stesso che, come nell’”infans”, non riesce a separarsi dal godimento effetto di Reale (tanto che ne possano approfittare l’Es freudiano e l’Immaginario lacaniano per costituire l’inconscio con i resti o l’insufficienza delle parole), si può dedurre che esista qualcosa di simile a un “operatore lineare” che diriga in sequenza le trasformazioni fatta salva l’omologia vettoriale (del godimento) e che tale operatore non sia altro che il tempo. Per capire la metafora matematica, pensiamo semplicemente al “cubo di Necker” che tutti conoscono dopo che è stato disegnato dai gestaltisti e a come questo si trasforma condizionando il suo spazio ciclicamente nella visione se lo fissiamo in continuità.
Un pasticcio, d’accordo: come fa l’evento di cambiamento ad avvenire in un punto privo di dimensione? Ne parlavo in gioventù con un mio amico, fisico promettente; mi disse che tante volte si era ripromesso di affrontare, mercé il suo usuale ordine mentale, il problema del tempo in rapporto alla linearità o necessità causale, ma poi non ne ebbe mai il tempo.
Ma entrambe le due asserzioni, ho tempo di fare qualcosa e c’è tempo di fare qualcosa suonano come precarie, il differire è incerto quanto la precipitazione e una immaginaria ricchezza di tempo lo è altrettanto, non monetizzabile e comunque scambiabile in perdita con ogni probabilità.
Nella società borghese il tempo psichico viene ripartito in tempo lavorativo e tempo libero con rigidità eccessiva in base a precise pertinenze di Sorge e Gedanke, scissione da cui solo l’artista o i pochi intellettuali innamorati del loro mestiere riescono ad essere relativamente indenni. Elite invidiata, sono quelli che molto giustamente non vorrebbero mai andare in pensione.
Il tempo è vorace, ma per il momento non sembra correre il pericolo di morire di fame, ha di che nutrirsi anche nel discorso umano fatto di mode e forme rutilanti. Lo scienziato Prigogine, come altri grandi scienziati amico alla lontana della psicanalisi, ha detto che, a saperci fare, il tempo può elargire doni: è già difficile saperci fare con una donna, figurarsi con il tempo: si parla comunque di un tempo entropico e irreversibile in cui esercitare un’etica senza scampo che, in un tempo reversibile, peraltro evidentemente non umano, diventerebbe invece uno scherzo.
Non essendo tanto tipi da ammettere in santa pace tante sconfitte, per rappresentarci di là del tempo nell’effige e nell’epigrafe eleveremo opere di marmo o bronzo perenni.
Oppure eccoci a tentare di sottometterlo in un corpo a corpo, con armi spaziali, falliche e qualche volta fallaci, utensili di vario genere. Ma no, soprattutto scritture di vario genere che possano rappresentarci in absentia. Al minimo come il writer di strada che lascia una sua traccia etologica sul muro: pensa di rendere il tempo inoffensivo sottraendosi e lasciandogli un segno di sé. Talvolta succede anche esulando dalla scrittura, secondo la regola che si è là dove non si pensa e si pensa là dove non si è: ecco lo Zingaro spensierato… Che, si dice, vivrebbe in una specie di presente continuo… Non ha scrittura…
Lo spazio è corpo presente e disponibile per il frucugliare dello scienziato, dà l’agio di scegliere il momento per manipolarlo. Tutte le superfici si possono incidere, segni da ritrovare, tracce. Invece il tempo è un furetto elusivo e lo scacco non mancherà.
Così, se Lacan dice che tutti ci diamo da fare con parole e cose per completare un mondo incompleto e supplire a ciò che non c’è da principio e per sempre, il “rapporto” sessuale, bisogna aggiungere che di cose ne costruiamo o ne scriviamo anche per neutralizzare il tempo: c’è un legame? Se c’è, non mi è chiaro.
Certamente allora ci ispiriamo al nemico, perché è il tempo il primo autonomo scriba. Scrive anche sul nostro corpo. Che riscrive la sua derridiana archi-scrittura.
Le donne mostrano più confidenza nell’intrattenere rapporti con il tempo: sì il filo della Parca ma anche il ritorno della spoletta nell’ordito, la luna e il ciclo, la semina, la gestazione, l’evento impreciso detto lieto, la ninna nanna e così via. Meno ossessionate nell’essere e nell’avere, sembianti dell’Altro, indagano l’aperto con l’ascolto, che chiede attenzione ma non ha da schiudersi. Ascoltare il respiro del figlio. Con lo sguardo indagano semmai il loro stesso volto. Con l’ascolto si può forse amare veramente, non con lo sguardo che infatua. E lo straniero che si presenta al limitare le sorprende anche oltre la comparsa. L’evento. L’aperto. La cura. Il nuovo è delle donne.
Heidegger non era portato per la poesia più di altri filosofi, ma per lui la poesia era l’altro mestiere che si desidera; inoltre, da boscaiolo (e fenomenologo) immaginario, aveva grande confidenza con lo spazio. Sopravvalutava Hölderlin e Trakl, si arrovellava su Rilke, ma non capì che l’aperto cui è disposto l’animale rilkiano è più tempo di evento che spazio di presenza, in questa disposizione più simile a una donna di quanto lo sia un uomo e a Dio di quanto lo sia Cesare.
Voglio sottolineare che, malgrado il titolo della sua opera fondamentale, l’evento per Heidegger è sincronico non meno che per qualunque strutturalista in quanto disvelamento dell’Essere come un diverso significato strutturale che riordina tutti gli altri significati, gli enti che appaiono ri-collocati in quell’orizzonte significante.
Strano, secondo Giovanni, anche Dio si trastullò per un po’ con il Verbo prima di fare partire il tempo. È un problema. Che sia di desiderio? O di noia e perciò di accidia? Allora faccende di insufficienza eminentemente, anzi, esclusivamente umana, effetti del linguaggio nell’immaginario inefficace, da emendare, dato che di verità può vantarne solo una, l’angoscia per qualche cattivo incontro nel tempo.
Invece un tempo del godimento è anticipato nel desiderio, cioè nelle possibilità immaginarie, delle quali, divinatorie, renderebbe correttamente ragione un verbo al futuro anteriore. Il godimento, nient’altro che evento impossibile da dire, è irrilevato nel presente e dimenticato o disconosciuto nel passato. È nel trastullo logo-pratico, nello Zeitvertrieb del fort/da del nipotino famoso, (non di una nipotina, forse destinata a essere “giovane pollastra” e “gravida giovenca”) che l’evento viene allucinato nello spazio, scrutato e gestito oggettivamente per il poco che si può, a uno a uno nel linguaggio. È l’invenzione della possibilità futura come promessa o minaccia, in cui si esorcizza la contingenza istituendo un soggetto bambino che ha già l’estaticità dell’Io per un mondo adeguato ovvero discorsivo, pensabile nel tempo e memorizzabile per il tempo. Un mondo in cui si può mettere qualcosa dove non c’è nulla. Ma il tempo dell’evento è già nel grembo in cui non c’è Verbo che dica lo spazio dell’oggetto presente. Il tempo dell’evento e il tempo del soggetto non coesisteranno.
Nel suo primo romanzo in francese, “La Lentezza”, Milan Kundera inventa quella che chiama “un’equazione esistenziale”: “…il grado di lentezza in cui si svolge la nostra vita è direttamente proporzionale alla quantità di memoria che può essere presente, mentre, viceversa, il grado di velocità è direttamente proporzionale alla quantità di oblio. Da tale equazione si possono dedurre diversi corollari, per esempio il seguente: la nostra epoca si abbandona al demone della velocità, ed è per questo motivo che dimentica tanto sé stessa. Ma forse è meglio rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare questo desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più a essere ricordata, che è stanca di sé stessa, disgustata…”.
Già, forse la passione moderna della velocità anche a livello individuale si spiega con una volontà di sfuggire a sé stessi insieme con la propria memoria, quando per memoria si possono intendere tutte le rappresentazioni che rendano ragione di una esistenza personale e sociale, nel bene e nel male a rischio di inautenticità. Da un sano “orrore di sé”, al malanno dell’odio di tutto. Allora, riferendoci di sfuggita all’endiadi posta come titolo da Heidegger, non sarà che nella velocità ci sia la passione di uccidere addirittura l’Essere nel tempo? Cioè, che vi si possa riconoscere il Todestrieb di Freud?
Nell’ontologia del tempo resta che esso non può certo dirsi il luogo degli eventi, semmai gli eventi stessi che, nell’attimo della presenza (cioè dell’attualità, da actus, participio di agere…), non trovano di che allocarsi.