Devo a Orhan Pamuk una spiegazione e il possibile senso dell’attrazione che ancora i musei esercitano su di noi nell’epoca della volatilizzazione delle cose tangibili in favore della loro immagine digitale, ovvero della tendenza all’astrazione, di cui peraltro i musei non mancano d’avvalersi sempre più.
La magia residua del museo tradizionale consiste viceversa nella trasformazione (interpretazione) del tempo storico, privo di concretezza, nello spazio in cui c’è, concreta, la presenza dell’oggetto. Spazio museale, si dice.
Magia ben più grande della trasformazione inversa dello spazio di presenza nel tempo con l’equivoco della velocità, magia da prestidigitatori di cui godiamo d’abitudine.
E non mi pare che la trasformazione (interpretazione) del tempo in spazio, per esempio dei monumenti, riserbi pericoli riferibili a eccesso di godimento, mentre lo stesso non può dirsi per la trasformazione e l’interpretazione drammatica dello spazio attraverso la velocità quando contemplazione e presenza non ci bastano.
Il riferimento è al romanzo di Pamuk “Il museo dell’innocenza” e alla fascinazione della presenza sincronica che è la qualità anche di ogni emozione quando ogni cosa è illuminata, ben oltre la qualità puramente esorcistica oppure apotropaica di ogni feticcio.
“Ogni cosa è illuminata” è il titolo di un film, soggetto di Jonathan Safran Foer e regia di Liev Schreiber, che fa ben capire come, se la luce illumina e fa esistere gli oggetti presenti come eventi presenti, la memoria illumina e fa esistere gli oggetti presenti come eventi passati.