Al di là di poterne trattare i segni come muro, ostacolo, il Reale non si può immaginare, né dire, né sapere: è la sua definizione, vicina, dopotutto, a quella di inconscio. Se cerchiamo, come cerchiamo, di afferrarlo, ci resta tra le mani sempre e solo il deludente rovescio del senso delle cose, della nostra “realtà” fatta di significati sfuggenti e provvisori, sembianti riferiti dalle parole.
“Non-senso” e “impossibile” sono i termini riferibili per Lacan a questo nostro rovescio che, in quanto tale, lungi da poter essere esiliato in qualche trascendenza negativa come vorrebbero i filosofi metafisici e i maghi, resta quanto di più immanente e presente ci sia, un che di inafferrabile a portata di mano. La Cosa terribile e insignificante, ciò che non funziona, l’intoppo insormontabile.
Rilke si è impegnato con tutte le sue forze ad afferrare il Reale e ha escogitato “das Offenen”, “l’aperto” nello sguardo degli animali, che ha la morte dietro, non davanti a sé, e il Weltinnenraum, il luogo in cui le parole hanno origine. Sembianti ai quale mi pare sottragga il tempo rendendolo presente, come sempre si fa quando si vuole maneggiare qualche assoluto che non sia metafora.
Un altro tentativo, a fronte dei tentativi aporetici dei filosofi, è quello vertiginoso di Artaud, del “corpo senza organi”, cioè senza immaginario. Non conosco miglior tentativo di immaginare il Reale alla luce del linguaggio.
Il sapere sul Reale è sapere reale, quello che non si sa, l’inconscio, per la semplice ragione che esso non esiste se non annodato in noi, con l’Immaginario e il Simbolico. Quando Lacan ci dice che il Reale “è senza legge” non vuol dire che sia un caos che può produrre solo caos: non è necessaria una regola affinché si produca una lettera.
Il rapporto che intratteniamo con il Reale fuori senso, cioè con il tempo in cui necessità e contingenza coincidono dando luogo all’essere e non-luogo alla Cosa, ha due termini, godimento e angoscia; ma questo se ci riferiamo a un “fuori senso” immaginato a noi esterno, che non ci tiene in alcun conto, mentre c’è un fuori senso immaginato a noi interno, quel piccolo resto (a) che a titolo di lettera e non di significante ha resistito al Simbolico in un punto di vuoto, con il quale pure intratteniamo un rapporto che ha due nomi: inconscio e desiderio.
In queste relazioni si manifesta tra i significanti il soggetto come altro che la Cosa indifferenziata, intima ed estranea, “extima”, dice Lacan, facendoci perdere un po’ di vista il nodo borromeo e di conseguenza il fatto realistico ben messo in evidenza, dopo Hegel e altri, da Žižek, che ogni apparenza è reale e che non c’è plus-verità di cui impadronirsi come eccedenza di verità.
Vero è che Freud immaginò l’Es come il luogo in cui fare posto alla verità. Nella formula “wo Es war soll Ich werner” (in cui addita uno scopo della psicoanalisi: “dov’era la Cosa reale ci sarà l’Io”), non è chiaro se noi possiamo accedere a una verità esterna a noi e indipendente da noi che sia là nel Reale ad aspettarci, oppure se è nostro compito produrla e portarvela.
In definitiva, se si può supporre, per quanto ci riguarda, cioè per una metafisica alla buona, di poter identificare il Reale con il tempo degli eventi, è invece del tutto certo che tempo e Reale siano accomunabili in quanto misura della nostra impotenza a giostrare le cose o gli eventi direttamente ed immediatamente.
D’altronde in psicoanalisi si verifica che il tempo è più della malattia che della salute e che la verità è la diretta conseguenza di una ignoranza, da intendere come originario ed insormontabile limite, più che un suo rimedio.
Da ciò deriva l’irriducibilità della verità alla certezza scientifica. Come l’irriducibilità al Reale della realtà fenomenica, la rappresentazione, le semblant, che ferma per un attimo il tempo. (etimologia di attimo: indivisibile, come atomo…).