Tra le due dimensioni che rendono “simbolico” il linguaggio umano, la metafora e la metonimia, era nella seconda che Lacan si trovava più a suo agio, mentre diffidava un poco di metafore, esempi e similitudini, ben sapendo come le tre cose sono imparentate nella retorica e che anche un esempio ha lo scopo di abbreviare il dire, condensare il discorso nel momento della consistenza immaginaria in cui può arenarsi e da cui non è sempre facile farlo ripartire: “Vedete come ne sono parco”, disse una volta. Indulgervi sarebbe stato corteggiare il senso, che non deve essere troppo, dato che ce n’è già a sufficienza. I sintomi se ne nutrono, le ideologie e le dottrine non hanno difficoltà a reperirlo per sorreggersi, il godimento ci si mette al riparo, le immagini lo fissano fingendo di aggirarlo.
Anche la sua tecnica ovvero il suo stile di analista era, dicono, felicemente avara di interpretazioni. Salvo talvolta emettere un sospiro non più eloquente di una lettera in cerca di significazione nell’analizzante. Stile o maniera che fosse tra metafora e metonimia, il sospiro instradava verso l’inconscio, in fondo adattando in congruità, come raramente avviene, mezzo e scopo nel chiasmo indissolubile e continuo di senso e non senso. È questo il moebius fondamentale di Lacan.
È il suo famoso semi-dire che lascia piccoli spazi per la verità di un semi-senso nella Verschiebung delle metonimie.
Il senso è ciò che ci esilia dal Reale, da quello che invece attraeva Lacan tanto da inseguirlo più che nelle parole dietro le parole, aggirandole con i suoi giochi barocchi nel tentativo di sorprenderlo, come “un gamin de cinq ans”.
Il famoso “slancio verso il Reale” che desiderava per i suoi analizzanti era dopotutto sbagliare mira apposta per centrarlo nell’inconscio. Così si giustifica anche il paradosso della “regola fondamentale”, parlare senza dire: la lingua inventata per dialogare con l’inconscio aggirando l’Es freudiano, ovvero la Chose lacaniana.